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Channel: Natale – il blog di Costanza Miriano
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Accendete le luci

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di Cyrano

Il mio parroco lo dice ogni anno, più o meno in questo periodo, che il vero difetto del Natale è che è il tempo liturgico più breve dell’anno. Inutile che si stia lì a precisare che probabilmente sta intendendo piuttosto l’arco che va dalla prima domenica di Avvento al Battesimo del Signore: queste sciocchezze libresche le sa come e meglio di me; quello di cui parla lui, invece, è la magia che c’è nell’aria, negli odori, nei colori, perfino nel freddo. È una cosa che diversi amici visibilmente indifferenti a Dio dicono di sentire “allo stesso modo” (vabbè…), e che non ha molto a che fare con le attività parrocchiali, anche se la notte di Natale in chiesa rischi di rivedere pure gente che ti ripromettevi di andare a trovare al cimitero (per carità, meglio così).

Me ne sono ricordato pochi giorni fa quando, nel freddo della mattina, sono passato davanti a un negozio la cui porta veniva acrobaticamente addobbata dalla proprietaria con rami di conifera (rigorosamente artificiali, tranquilli) vivacizzati da lucette intermittenti: «Acciderbolina!» (è la mia esclamazione più abituale) «è già arrivato Natale!», e il pensiero mi ha dato un sorriso, un brivido e il piacere d’inspirare immantinente una bella boccata di smog congelato.

Lo so, quindi, che è presto per parlare del Natale, ma bisogna realizzare che c’è veramente un Natale che non inizia con l’Avvento e che non finisce con lo scadere del Tempo di Natale: questo Natale finirà al più tardi durante il pranzo del 6 gennaio, quando sapremo che mentre le donne staranno rassettando la tavola, noialtri si starà fuori (“al freddo e al gelo”, giustamente) a togliere le luci. Non è questione di quante siano e di quanto pesino i cavi, ma del valore simbolico di un gesto che decreterà la chiusura di una “domenica annuale” (i teologi possono scrivere tutti i libri che vogliono, ma a Pasqua non si mettono le luci alle finestre).

Come “il natale” si chiude con la rimozione delle luci, in certo modo con l’addobbo delle luci comincia pure: non ho pensato, a dire il vero, a chiedere a quella signora se per caso non fosse un’ambrosiana residente a Roma (nel qual caso la sua precoce attività d’addobbo sarebbe rientrata nel più rigoroso canone liturgico), ma qualcosa mi dice che il caso sia improbabile. Solo due reali possibilità avrebbero giustificato e sostenuto la sua aria euforica sulla scaletta traballante nonostante il freddo pungente: o pregustava un bastoncino di zucchero filato che l’aspettava al rientro nel negozio, oppure già gustava l’aria di natale che le si affollava alla mente e ai sensi coi ricordi dei canti, dei regali, delle cene tra amici e dei parenti di lontano (i più cari!) che tornano a farsi vedere.

Se il sabato «di sette è il più gradito giorno, / pien di speme e di gioia», quanto più ci godiamo il sogno della domenica che già da giovedì non è lontana? La magia del tempo in cui il Natale è in vista ma non incalza ancora è che c’è ancora modo di respirare e di pensare all’incanto collettivo (tra un mese ve lo sognerete). Quale incanto? Che sono tutti più buoni? No, non credo: ma forse che il desiderio di felicità affiora un po’ più in superficie per tutti, questo sì. «Il Natale è la festa dei buoni sentimenti e dei legami famigliari»: mi rispose minimale, ferendomi, un’amica, anni fa, quando io le porgevo i miei auguri. Ora però ho tempo per meditare sul dolore che mi diede il rendermi conto del suo non vedere ciò che vedevo io – anche mentre ci si abbraccia si può distare un universo intero l’uno dall’altro.

Tra un mese ci saranno i servizi giornalistici sulla frenesia da shopping, sulla crisi che colpisce le fabbriche di giocattoli, su chi fa il mutuo per andare ai Caraibi, sul caro torrone e sulle diete post-natalizie. Tra un mese leggeremo articoli di giornale su presepi senza Gesù, ascolteremo le solite tiritere sul consumismo senz’anima e dovremo necessariamente rispondere a tono, talvolta: bisognerà rimbeccare gli pseudointellettuali saccenti che verranno a ripeterci che il Natale è nient’altro che una festa pagana smaltata di cristianesimo (senza sapere né a quando risale il Dies solis invicti né a quando risale il Dies Natalis D.N.I.Ch.).

Adesso, però, è il momento in cui possiamo contemplare in silenzio il panorama di un natale a basso contenuto polemico perché a basso tasso cristiano (Gesù lo sapeva, di star portando la spada): ora è il momento in cui possiamo commuoverci perché le città degli uomini si preparano ad affrontare le notti più lunghe e più buie dell’anno riempendosi di luce (e risparmiare su quelle luci sì, che sarebbe crisi!), e per questo forse unico motivo s’illuminano e si riscaldano anche di sorrisi.

Non sono i sorrisi di chi è pronto a dare amore (non è vero che si è “tutti più buoni”), ma sono quelli di chi è desideroso di riceverne, come quell’amica che anni fa non seppe accogliere il mio augurio di poter gioire della neonata carne di Dio. Se pure fosse costretto oggi, il Natale, a celebrarsi in un clima di indifferente paganesimo della cuccagna, non dovremmo ricordarci che in fondo non abbiamo mai fatto altro che trasformare le superstizioni, sacre o profane che fossero, in feste sante? La lotta più dura che ci aspetta, in quei giorni, non è contro chi andrà a vedere l’ennesimo squallido cinepanettone, né contro chi ce la metterà tutta per lucrare sulle povertà altrui: se un giorno fummo i pastori dal canto errante cui qualche angelo è venuto a indicare la ragione della speranza e della pace, ora forse potremo essere noi quelli che sapranno avvicinarsi a chi sorride nell’anonimo desiderio di completezza e felicità.

C’è una cosa che non ci prenderà mai abbastanza preparati, quando verranno quei giorni: ciò che prediligiamo nel dare “la buona notizia” a chi – riteniamo – dovrebbe essere smanioso di riceverla è la parola, mentre il Natale celebrerà l’Incarnazione di un Dio che vuole, sì, rivelarsi, ma la cui Parola si limiterà ai vagiti per diverse manciate di mesi. Non saremo mai abbastanza preparati a evangelizzare con la semplice presenza della nostra esistenza cristificata, restando accanto a chi non sa, non vuole, non può (ancora?) credere.

È difficile, però, che un evangelizzatore impaziente abbia davvero una buona notizia in serbo: forse la cattiva notizia c’è per lui, ed è che neanche sa quanto è buona quella che potrebbe dare ragione, luce e calore al suo sorriso e a quello degli altri.

Le giornate si fanno brevi, sotto il nostro polo, e ci è richiesto di far brillare in una condotta divinamente modesta la luce che è in noi, se veramente l’abbiamo conosciuta, «la luce che illumina ogni uomo».

Altrimenti, magari è la volta buona!


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